PERCHE’ IL LAVORO (NON) E’ UN DIRITTO
Martedi - Giugno 26, 2012 12:23     Visto:1598     A+ | a-

PERCHE’ IL LAVORO (NON) E’ UN DIRITTO
 
 
Ci sono questioni in Italia a proposito delle quali è difficile discutere finché continuiamo ad inforcare gli occhiali dell’ideologia. Una di queste è il (presunto) diritto al lavoro. In nome di questo (presunto) diritto, presente negli ideali di molti ma non altrettanto presente nel diritto positivo, sono stati spesi fiumi di parole e si sono generate epocali contrapposizioni che hanno finito con il produrre solo un grande fraintendimento. Tutto questo non giova a nessuno e meno che mai negli attuali frangenti.
 
Il lavoro continua a non esserci (anzi a diminuire), la gente continua a pensare che avere un lavoro costituisca un diritto e la tensione continua così ad aumentare. Se la gente avesse ragione, il non trovare un lavoro - per esempio l’essere rifiutati da un’azienda alla quale si è inviato un curriculum - concretizzerebbe la violazione di un diritto reale e la conseguente possibilità di un’azione risarcitoria. In nome di questa «presunzione», che ha il difetto di fondarsi sul nulla, le sacrosante battaglie per migliorare le proprie condizioni (quando non si tratti, non di rado, di pura e semplice sopravvivenza) si tramutano però spesso, esse sì, in violazioni della legalità (come bloccare ferrovie, strade, ecc.) e in violenza contro se stessi (le torri occupate, le resistenze fino allo stremo in condizioni pericolose, in certi casi addirittura il suicidio, ecc.).
 
In questa situazione di confusione generale è molto difficile far capire a chi protesta (e che soffre di un disagio reale) che non di una questione di diritto si tratta e a chi reprime (lo Stato) che sarebbe invece ora di uscire dall’ipocrisia legiferando in modo chiaro e giusto, senza fare l’occhiolino a nessuno e senza offrire sponde che, nell’ipotesi non peregrina di un peggioramento delle condizioni sociali del Paese, potrebbero condurci a guai serissimi.
 
Veniamo al dunque. Perché il lavoro non è un diritto quale, che so, quello di vedere rispettato il contratto di lavoro esistente qualora si avesse già un lavoro o quello di essere curati in un ospedale, o di essere accolti in una scuola pubblica o altri similari? Perché l’ospedale o la scuola o l’azienda che ha già assunto un lavoratore o altri soggetti ben identificati sono tenuti per legge ad adempiere al loro impegno e che laddove non lo facessero si creerebbe in modo automatico un vulnus effettivo, che è perseguito per legge. Mentre nessuna azienda o organizzazione qualsiasi può essere citata in giudizio se decide che per il suo funzionamento gli bastano 10 persone e noi siamo per caso l’undicesimo che “chiede” un lavoro.  Ci tocca rimanere fuori e non avrebbe senso l’andare da un giudice.
 
Una società che ritenga che il lavoro sia un diritto da rendere effettivamente concreto (personalmente penso che sia un pensare nobile e alto) ha solo due strade di fronte a sé per arrivarci. Una è il comunismo reale. E’ stata già percorsa con gli esiti che conosciamo. Nelle società comuniste dove le aziende sono state collettivizzate il lavoro c’era per tutti, per legge, ma l’appiattimento delle ambizioni, degli interessi e delle competenze individuali ha generato la povertà collettiva.
 
L’altra strada che ritengo più praticabile è quella di creare una specie di doppio binario: da una parte il libero mercato dove domanda ed offerta di lavoro di eccellenza possano liberamente incontrarsi alle condizioni che liberamente scelgono e generare così ricchezza; dall’altra una «rete di sicurezza» gestita direttamente dallo Stato sotto forma di opportunità di lavoro per tutti coloro che rimangono esclusi dal primo binario e che, a questo punto con ragione e sotto forma concreta godrebbero di un “diritto” garantito per legge che tutela la vita, senza più alcuna necessità di ricorrere a umilianti  forme di protesta che dovrebbero far vergognare una società moderna.
 
Il giorno in cui lo Stato uscisse dall’ambiguità e dall’ipocrisia correnti chiamando finalmente le cose con il loro nome e affrontasse la questione realisticamente con pochi semplici  provvedimenti risolutivi in grado di assicurare il lavoro (senza nemmeno un giorno di ritardo) a tutti quelli che per un motivo o per l’altro non riescono a trovarlo sul primo binario, ebbene in quel preciso giorno noi potremmo dire che il lavoro, per ognuno di noi, sarà effettivamente diventato un diritto personale. Se te lo trovi per conto tuo bene. Se non ce la fai o sei stato esodato da qualche parte, non ti preoccupare perché hai un preciso diritto (e lo Stato un preciso dovere) ad essere sistemato senza perdere nemmeno un giorno di paga. Creare un simile sistema è tecnicamente possibile, avrebbe virtuose ricadute collaterali  e si può fare a costo zero per lo Stato.
 
 
Altra cosa, e ben più difficile,  è convincere di questo coloro che, sindacati in primis, dal sistema attuale traggono rendite di intermediazione troppo succulente per essere abbandonate a cuor leggero. L’ostacolo al cambiamento non è evidentemente di natura tecnica ma solo e tutto politico e con questo dobbiamo fare i conti, ci piaccia o meno. Quindi per grave colpa della politica che non ha mai voluto imboccare questa semplice strada e anche per colpa  nostra che non abbiamo fatto sufficiente pressione dal basso, questa chiarezza oggi non c’è, perciò il lavoro non è un diritto nonostante l’ambiguo richiamo dell’articolo 1 della Costituzione, gli animi sono esacerbati, la preoccupazione è alta e il sistema è bloccato nonostante l’annunciata,   confusa e controproducente riforma del governo Monti.

 

Pepe Caglini
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