IL «PROBLEM SOLVING», MITO MANAGERIALE DEI NOSTRI TEMPI
Lunedi - Settembre 10, 2012
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IL «PROBLEM SOLVING», MITO MANAGERIALE DEI NOSTRI TEMPI
Se andate da un dirigente e gli spiegate, con tutte le cautele del caso, che una buona fetta del suo preziosissimo tempo se ne va nel tentativo di risolvere problemi che lui stesso ha creato, avete una buona probabilità che vi tolga il saluto. Perché è tale la cecità nei confronti della vera origine di quelli che noi chiamiamo problemi, che il tentare di porre la questione nei suoi giusti termini appare ai più, ad andar bene, una provocazione.
La percezione comune nei confronti dei cosìddetti problemi è che questi purtroppo si presentano senza tanti complimenti e che, quando succede, vanno risolti, punto e basta. Ecco quindi nascere una disciplina manageriale, il problem solving e guai a non presentare nel proprio curruculuum una scontata capacità, direi una vera predilezione, per questa attività, quasi che il mettere pezze a grane fosse un piacere ed ecco quindi l’enfasi degli annunci di ricerca di personale qualificato dove senza la capacità di problem solving, va da sé, non si va da nessuna parte.
Oramai i corsi in questa specialità o qualcosa di analogo si sprecano e la soluzione di un qualsiasi problema sta assumendo, nella prospettiva di tali iniziative, l’inquietante configurazione di uno sbarco sulla Luna con annesso repertorio di strumenti analitici, curve di Gauss e modelli matematici. Non stiamo esagerando? Perché in un annuncio di ricerca di un manager non leggiamo mai, tra le competenze richieste, ci interessa una persona capace di non creare problemi al posto di quella, gettonatissima, della capacità di risolverli?
Alain Gerbault, il grande navigatore francese, ha lasciato in un suo bellissimo libro (Seul à travers l’Atlantique) una rappresentazione efficace di ciò che vado dicendo. Man mano che si va avanti, sempre più preoccupati, nella lettura, si susseguono disastri da paura tra albero a pezzi, vele stracciate, tempeste incombenti, acqua che entra da tutte le parti e lui che, impavido marinaio, un problema risolto dopo l’altro emerge come l’essenza del capitano coraggioso. È davvero così? Ho potuto constatare, anni dopo la lettura di questo libro, che in mare non esiste il tempo cattivo, esistono solo cattive attrezzature, cattive soluzioni, incerta quando non approssimativa preparazione.
Certo, rimane sempre la gloria di aver saputo risolvere un’emergenza, quando questa si presenta, ma chiamiamola allora con il suo nome e non nascondiamoci il fatto che la vera arte – marinaresca, militare, manageriale, ecc – non consiste tanto nella capacità di risolvere il problema quando questo si presenta quanto in quella molto più sofisticata di evitare che il problema stesso possa nascere. Naturalmente, questo è molto meno “estetico” e glorioso perché significa che si possono concepire e condurre incredibili imprese senza alcuna necessità di vestire i panni dell’eroe risolutore semplicemente perché il 98% dei potenziali problemi è stato già pre-risolto all’origine con una attenta prevenzione e preparazione.
Avendo capito questo parecchio tempo fa, ne ho fatto un po’ la filosofia della mia vita che cerco, con scarsi risultati, di trasmettere a tutti quelli che hanno una qualsiasi responsabilità: dedicate un po’ di tempo in più – solo un po’ – alla prevenzione e risparmierete così l’enormità di tempo che dovrà essere sprecata nella soluzione di guai che avrebbero dovuto essere in realtà soffocati nella culla, quando ancora non fanno danni. Ritengo che il vero problem solving sia questo, non l’analisi ex-post per scoprire le cause del disastro già avvenuto (vedi caso Ilva) ma quasi sempre largamente annunciato per chi avrebbe dovuto avere occhi per vedere.
Anche se si dice che la Storia non insegna niente, io non la penso così. La Storia non ha nulla da insegnare a chi non ha nulla da apprendere perché sa già tutto o perché è semplicemente in possesso di una mente di piccole dimensioni (ce ne sono, in giro). Per esempio tutta l’essenza del problem solving può essere compresa studiando ciò che è avvenuto al Polo Sud tra il 1911 e il 1912 quando due grandi uomini – il norvegese Amundsen e l’inglese Scott – insieme alle loro squadre di scienziati-avventurieri, si sono confrontati in una delle più grandi sfide condotte dall’uomo alla natura ancora inviolata, la conquista del Polo Sud.
La sfida doveva concludersi in un trionfo (quello di Amundsen) e in una tragedia (quella di Scott e dei suoi uomini). C’è chi ha parlato di fortuna e di sfortuna. Nulla di più sbagliato. Da una parte – la parte norvegese – abbiamo lo scorrere fluido di un’organizzazione snella, condotta da un leader naturale, dove nulla è stato lasciato al caso e dove i più minuti dettagli erano stati pre-risolti in una attenta sperimentazione cui tutti i protagonisti avevano partecipato con le loro idee. Dall’altra – la parte inglese – abbiamo l’arrancare angoscioso e appesantito di un gruppo non coeso di uomini sfiancati dalla necessità di una continua risoluzione di problemi che si presentavano come emergenze ma che in realtà non lo sarebbero state se solo ci si fosse pensato prima, come Amundsen ha dimostrato. Il tutto aggravato da uno stile di comando burocratico – Scott era un ufficiale della marina militare dell’epoca, imbevuto di tradizione – e inibitorio nei confronti dell’intelligenza e dell’iniziativa dei sottoposti.
La stampa inglese dell’epoca fece il suo mestiere e l’incapacità di Scott nel problem solving – e non solo – venne ammantata sotto una coltre di eroismo, sacrificio e dedizione al dovere e alla Patria. Comprensibile e nobile. Ma distorcente per tutti coloro che ai tempi nostri, nei vari posti di comando, fanno gli stessi identici errori di Scott ritenendo, a torto, che un attivismo inconcludente e privo di strategia possa nascondere il vuoto di vera competenza nell’arte suprema della soluzione dei problemi prima ancora che essi possano sorgere.
Pepe Caglini