LE COSE TROPPO SEMPLICI CHE NON VENGONO INSEGNATE NELLE BUSINESS SCHOOL
Lunedi - Settembre 17, 2012
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LE COSE TROPPO SEMPLICI CHE NON VENGONO INSEGNATE
NELLE BUSINESS SCHOOL
Chissà perché nella storia dell’imprenditoria tutti conoscono Henry Ford, Adriano Olivetti, Thomas Edison, Soichiro Honda, Enrico Mattei, Torakusu Yamaha, Marcel Bich, Steve Jobs e nessuno, o quasi, conosce Andrew Carnegie, probabilmente il più grande tra tutti questi uomini d’impresa. E’ vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e la sua grandezza è dovuta non tanto alle dimensioni dell’impero (siamo nel settore dell’acciaio) che è stato capace di sviluppare partendo da zero – era un semplice operaio quando pensò che se fosse riuscito a far diminuire il prezzo dell’acciaio sul mercato sarebbe diventato l’uomo più ricco del mondo, cosa puntualmente avvenuta – o a chissà quali rivoluzionarie invenzioni ma a qualcosa di molto più importante consistente nell’aver riflettuto sui motivi del suo successo al fine di mettere questa esperienza a disposizione di altri e nell’aver quindi concepito una filosofia dell’agire imprenditoriale che può essere utilizzata da chiunque a prescindere dalla cultura o dagli studi fatti. Devo far notare che nessun altro imprenditore al mondo, per quanto famoso, ha mai fatto nulla del genere. Da qui la sua fama di filantropo, dovuta non solamente agli aiuti che ha elargito come nessun altro imprenditore prima di lui ma soprattutto alla sua idea di ispirare chi nella vita vuole cambiare, in meglio, la propria posizione. Dunque attenzione, sta parlando Carnegie, vale la pena ascoltarlo perché ha qualcosa da dirci.
Il successo. Tutti possono conseguirlo ma se manca l’applicazione non prendiamocela con la sorte avversa per gli scarsi risultati. Quando manca la capacità di darsi uno scopo fondamentale e di impiegare tutte le energie disponibili per raggiungerlo sviluppando piani e agendo in conseguenza secondo una ferrea consequenzialità sostenuta dalla determinazione, è difficile cambiare la propria posizione. Carnegie dice che è ognuno di noi a fissare il suo stipendio e le sue condizioni di vita. E’ sgradevole doverlo ammettere ma ha ragione.
Il profitto. Nel desiderio di fare soldi non c’è niente di male. Ma non può essere l’unica dimensione dell’agire imprenditoriale. Ad essa devono accompagnarsi una dimensione spirituale – una crescita personale, o comunque la si voglia chiamare, in grado di far percepire orizzonti più avanzati – ed una dimensione umana, basata sul riconoscimento che l’uomo non va considerato come un semplice mezzo di cui servirsi ma come un fine in sé stesso, consentendogli, se merita, di sviluppare le sue potenzialità. Carnegie ha fatto più profitti di qualsiasi altro imprenditore, per poi restituirli quasi integralmente alla comunità ma sempre con un lucido approccio meritocratico, insomma poca assistenza e molto riconoscimento del merito.
Le conoscenze. Non sono queste che contano, ma il modo in cui le nozioni che si acquisiscono con l’istruzione vengono rese produttive dall’individuo ai fini di qualche risultato. Ecco, in questa semplice visione, due mondi che si scontrano. Da una parte la cultura dell’individuo, della sua intraprendenza e iniziativa personale e del rilievo di queste qualità nella valutazione di ciò che chiamiamo merito – nel senso che se queste qualità non ci fossero nessun merito potrebbe essere ascritto al semplice possesso di qualsiasi titolo accademico – e dall’altra la cultura del pezzo di carta che vorrebbe invece, come ancora accade nel nostro Paese, che il titolo fosse una specie di certificazione del valore della persona, a prescindere.
La carriera. Chi dice che nel mondo di oggi non si fa più carriera dice solo una mezza verità. Chissà come si diventa magazzinieri, capi reparto, store manager, direttori vendite o di stabilimento, direttori generali, ecc. Quelli che vediamo oggi in posizione sono forse gli ultimi della storia? Non andranno a scadenza anche loro, nonostante la crisi? E chi li sostituirà? Forse tutti i raccomandati e i protetti d’Italia, chiamati a raccolta? Suvvia, non esageriamo. Certo, sono seriamente a rischio, e con ragione, le carriere fatte per pura anzianità, senza l’ombra di un merito – ricordo, a chi non lo sapesse, che l’Italia è l’unico Paese al mondo dove c’è un generale ogni 20 soldati – e le carriere per puro effetto di pedigree: sapete che un cane di pura razza in qualsiasi esposizione canina prenderà sempre un premio anche se non sa fare un accidente ma pare che i tempi stiano cambiando anche per loro.
Il pensiero di Carnegie relativamente a questo punto, ci dà una mano per rientrare nella realtà. Egli ci ricorda che con lui imprenditore tutti hanno potuto fare carriera, bastava che lo volessero. E che significa volerlo? Significa dare sempre qualcosa in più di quello che si prende, assumere l’iniziativa, non titubare di fronte alle responsabilità, chiedere, sì chiedere, di essere messi alla prova con un maggior carico di lavoro invece di lamentarsi di quello che si ha, andare oltre il proprio stretto compito, agire, far accadere le cose, rendersi indispensabili e insostituibili. E se tutto ciò non basta perché si ha la sfortuna di lavorare in un’azienda dove sono insensibili al valore – ce ne sono, eccome – avere il coraggio di abbandonare la palude per incontrare acque più fresche dove c’è bisogno di gente in gamba perché stanno crescendo. Anche di queste aziende ce ne sono e stanno cercando, spesso senza esito.
E’ questo però l’atteggiamento che possiamo riscontrare in tanti che si lamentano delle condizioni non brillanti in cui si trovano? A me sembra di no ma posso sempre sbagliarmi. Vedo infatti, qui da noi, parecchie persone che sono state allevate, fin dall’inizio, a pane e “diritti” e che vanno al lavoro con l’entusiasmo di quello che deve sbrigare una sgradevole corvée, con però in testa una unica idea fondamentale, questa sicuramente bella chiara : portare a casa qualcosa in cambio di nulla. Quale carriera sarà mai disponibile per queste persone ?
La cooperazione. Carnegie è stato il primo a capire che nessuna mente umana può dirsi in sé completa e che solo quando si dà corso ad una armoniosa alleanza tra due o più menti ogni limite può essere superato, tutti i problemi possono essere risolti e può nascere qualcosa di veramente grande. Utilizzando questo principio – da lui chiamato master mind – circondandosi di gente più capace di lui, non avendo paura dell’intelligenza dei più stretti collaboratori ma anzi stimolandola e sviluppandola sempre di più, lui è diventato l’uomo più ricco del mondo. A casa nostra non è così, ci godiamo a rimanere piccoli e marginali, ognuno però re del suo pollaio. Molti ambienti aziendali sono ancora luoghi dove l’unica parola è quella del capo, l’unico pensiero autorizzato è il suo, dove non una voce può levarsi a dissenso, a critica, a pur modesto suggerimento di seguire vie diverse da quella padronale, l’unica dotata di luce, intelligenza e conoscenza.
Sono le stesse aziende dove i proprietari si lamentano che nessuna delega o decentramento è possibile stante la manifesta incapacità ed inettitudine dei sottoposti (sic) a prendersi qualsiasi tipo di responsabilità e ovviamente hanno ragione, perfetta dimostrazione della profezia che si auto-avvera. La maggior parte delle aziende che la crisi sta mandando al dissesto appartiene a questa categoria, imprenditoria di scarsa qualità che s’è messa in mare quando c’era bonaccia e qualsiasi contadino era capace di navigare. La cooperazione secondo Carnegie, e lui ci è arrivato decenni prima di qualsiasi business school, non ha nulla di sofisticato o che necessiti di particolari percorsi di studio: è semplicemente la religione del lavorare insieme, parte integrante della prestazione retribuita, tale da escludere il lavoratore stesso da qualsiasi avanzamento laddove si dimostrasse refrattario a tale pratica. C’è qualche scuola in Italia dove ai ragazzi si parla di questo, così sanno come girano le cose quando entreranno in azienda?
La gestione del tempo. Secondo Carnegie, nessun successo potrà mai arridere a chi non sa gestire il proprio tempo. Questo non va buttato nello star dietro a tante questioni scollegate tra di loro nel tentativo disperato di far fronte a ciò che succede ma scegliendosi uno scopo fondamentale e quindi investendo il tempo su ciò che serve per raggiungerlo, limando senza pietà su tutto il resto. Questa è la via maestra per conseguire risultati e liberarsi di quell’attivismo nevrotico e sconclusionato che non porta a nulla (lo chiamano multitasking e c’è chi pensa che sia una qualità.).
E il tempo libero ? Con buona pace di chi crede che una vita possa essere concepita e vissuta a blocchi separati – il tempo del lavoro e quello della libertà – Carnegie ci ricorda che tutto il tempo è libero, sta a noi decidere come utilizzarlo. Naturalmente, chi non è riuscito a darsi nella vita uno scopo fondamentale, tenderà a vedere il lavoro come il tempo della costrizione e il cosìddetto tempo libero come il tempo della libertà ( dal lavoro) mettendosi così in una posizione schizofrenica, mi si perdoni l’accostamento. Ma non è così per chi essendosi dato uno scopo, nel tempo da lui dedicato ad escogitare i mezzi per raggiungerlo non vedrà certo una costrizione, ma la sua vera libertà, avvenga questo nel tempo canonico dedicato al lavoro, oppure mentre sta facendo un’escursione sulle Dolomiti.
Pepe Caglini