LA «RISORSA INVISIBILE» DEL NOSTRO PAESE
Venerdi - Settembre 28, 2012 7:20     Visto:358     A+ | a-

LA «RISORSA INVISIBILE» DEL NOSTRO PAESE
 
Tutti, o quasi, sanno che una corda non la si può spingere, la si può solo tirare. Lo stesso succede per la produttività sul lavoro: non è certamente spingendo le persone a lavorare di più che si ottiene il risultato ma questo molti dirigenti non l’hanno ancora capito.
 
Anche se è stato detto molte volte giova ripeterlo : il più grosso ostacolo al cambiamento non è di natura tecnica o finanziaria, esso risiede nella mente delle persone. La maggior parte dei dirigenti – includo in questa parola tutti coloro che hanno un sia pur minimo ruolo direttivo – sono convinti  che a loro spetti l’organizzare e che ai loro sottoposti spetti l’essere organizzati e l’eseguire diligentemente quanto da altri disposto. E’ talmente diffuso questo modo di pensare che quasi nessuno di questi dirigenti percepisce i nemmeno tanto mascherati sbertucciamenti di cui sono fatti segno quando i dipendenti, messi di fronte a cattive impostazioni di lavoro – una impostazione di lavoro è cattiva quando nasce dalla presunzione di sapere e invece non si sa – stanno zitti per quieto vivere ma l’esecuzione è svogliata, quando addirittura non è sabotata e la produttività va così a farsi benedire.
 
Non si aumenta la produttività lavorando di più ma lavorando meglio (al netto di tecnologie, investimenti e accordi contrattuali), cosa che può avvenire quando si usa il pensiero e non solamente quello dei dirigenti ma anche e soprattutto quello dei dipendenti. Infatti le soluzioni che portano al “meglio” sono tutte già esistenti, pronte ad essere utilizzate ma sono sepolte nella mente delle persone dove aspettano che qualcuno – “tirando” e non spingendo – consenta loro di vedere la luce, chissà quando. Queste soluzioni potenziali, assieme all’effetto motivazionale che la loro valorizzazione traina in modo consequenziale, costituiscono una straordinaria risorsa invisibile disponibile per tutte le organizzazioni e assai scarsamente utilizzata che non figura in nessun bilancio e che pochissimi  dirigenti e imprenditori sanno come mobilitare.
 
Questo potenziale inespresso, di tale impatto sulla produttività da rendere modesto al confronto qualsasi beneficio possa pervenire all’impresa da più favorevoli condizioni – ammesso ce ne siano all’orizzonte – di credito, aiuti governativi, accordi sindacali e altro, richiede però, per la sua mobilitazione, una mentalità dirigenziale completamente nuova, una vera rivoluzione copernicana. Il mondo del lavoro è uno strano mondo dove spesso chi comanda, per una sorta di ironia dell’assurdo, fa quello che non deve fare e non fa quello che deve fare. Il capo ritiene – sbagliando – di dover essere lui a organizzare gli altri, che è solo così che ci si guadagna lo stipendio e soprattutto che è questo il modo per  dimostrare a tutti chi è il capo? La smetta di pensare così e cominci invece a dare obbiettivi e a cercare risorse (che è il suo vero mestiere) lasciando che siano le persone stesse a organizzarsi come meglio credono per centrare i traguardi.
 
E soprattutto, queste persone, le aspetti al traguardo per valutare i risultati e fare programmi di miglioramento, invece di infastidirle di continuo lungo il percorso con microdisposizioni e pseudo controlli  che nascono solo da ansia e insicurezza. Chi lavora non si lamenterà mai che la parte strategica – gli obbiettivi da raggiungere e i criteri da rispettare – sia posta dalla dirigenza, ci mancherebbe altro. Ciò che però toglie al personale ogni motivazione e ogni incentivo a tirar fuori le soluzioni per lavorare meglio, base fondamentale della produttività, è la stolta pretesa della dirigenza di entrare anche nella tattica (le soluzioni più adatte a raggiungere un obbiettivo strategico) che è invece il terreno più proprio degli operativi e il luogo dove la produttività può essere stimolata dalla passione che nasce quando entrano in campo la creatività e la possibilità di progettare le soluzioni. I capi che invadono il terreno della tattica – togliendo così ogni motivazione ai loro collaboratori – sono capi insicuri, privi di fiducia sia in sé stessi che negli altri, timorosi che l’invenzione di modi di lavorare migliori proveniente dai loro “sottoposti” venga percepita come una dimostrazione della loro inadeguatezza.
 
 
Queste persone non si rendono conto che la situazione odierna ha spostato il luogo dove si deve mostrare la competenza. Se ieri era nel guidare il dipendente come un burattino anche negli aspetti più minuti, oggi è invece nel permettere che il burattino diventi esso stesso burattinaio, quanto meno sul piano della  tattica, piano questo dove ogni intervento “superiore” ha lo sgradevole sapore della supponenza e di una intelligenza non adeguata alla situazione.
 
Con dei lavoratori sempre più scolarizzati e intelligenti (quanti laureati già ora fanno, almeno provvisoriamente, lavori manuali?) dirigere diventa un’arte sofisticata dove l’errore mortale consiste nel dimostrare, con un comportamento inadeguato, che si possiede meno intelligenza di quelli che si vorrebbe dirigere, perdendo così ogni autorevolezza e ogni possibilità di ottenere risultati significativi.
 
 Pepe Caglini
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