QUANDO COMPRENDIAMO LA NOSTRA «MISSIONE» LAVORIAMO TUTTI MEGLIO, SIA NEL SETTORE PUBBLICO CHE NEL SETTORE PRIVATO
Martedi - Marzo 20, 2012 10:50     Visto:356     A+ | a-

QUANDO COMPRENDIAMO LA NOSTRA «MISSIONE» LAVORIAMO TUTTI MEGLIO, SIA NEL SETTORE PUBBLICO CHE NEL SETTORE PRIVATO
 
 
 
L’uomo è l’unico animale che ha bisogno di dare un senso alle cose  che fa. Guidare gli uomini è quindi essenzialmente la capacità di proporre ai propri collaboratori un senso condiviso, un significato illuminante in virtù del quale le persone comprendono a cosa serve il loro impegno (non di rado percepito come insignificante e privo di attrattive) e decidono che vale la pena di produrre uno sforzo. C’è chi, questo senso o significato lo chiama missione, scomodando una parola impegnativa ma non così lontana dalla realtà.
 
Tutti noi abbiamo inconsciamente bisogno di una missione e se questa manca o ha cessato di essere attiva perché uno scopo è stato raggiunto, entriamo in crisi, sentiamo che manca qualcosa. Se qualcuno di voi pensa che in tempi di crisi è già tanto avere un lavoro e chissenefrega della missione si dimentica che a valle del lavoro di ognuno ci sono comunque persone che hanno bisogno di un buon prodotto, un buon servizio, un buon insegnamento, una buona terapia, una buona assistenza e così via e che tutte queste prestazioni saranno di qualità solo quando coloro che le eseguono, i lavoratori, lo faranno con passione e dedizione.
 
Questa passione e questa dedizione possono però scaturire solo da qualcuno che ha compreso il senso di quello che sta facendo, accedendo in questo modo all’unica vera soddisfazione che può dare un lavoro: il senso di essere stati utili a qualcosa. Ma è questa la sensazione che oggi abbiamo quando entriamo in contatto con qualsiasi azienda o organizzazione? Tranne rare eccezioni si direbbe di no. Approssimazione, cinismo, incuria, superficilità stanno diventando esperienze  piuttosto comuni.
 
E’ vero che le mancanze più grosse emergono dal settore pubblico ma se Atene piange, Sparta non ride a giudicare dai comportamenti di tanti privati. Veniamo al punto. E’ corretto prendersela con il personale per questa situazione scoraggiante?  Secondo me no, salvo casi in verità molto rari. L’origine del problema sembra invece annidarsi nella drammatica e del tutto nuova incapacità di molti manager di far capire ai loro collaboratori l’essenza del loro ruolo.
 
Per carità, non che sia facile trasmettere ad una persona in che cosa consista la sua “missione”: per questo servono pazienza, passione, cultura, una qualche inclinazione pedagogica, senso civile, indipendenza, integrità personale e una profonda conoscenza dell’attività specifica. Troppe qualità, direte voi. Il fatto è che tutte queste attitudini, un tempo comuni nei dirigenti di valore, si stanno facendo rare ma proprio per questo la scelta delle persone da promuovere nei posti di responsabilità è oggi una delle decisioni più importanti e più gravida di conseguenze che si possano prendere in una organizzazione.
 
Se fate un giretto in un qualsiasi ambiente lavorativo italiano vedrete che ogni dipendente ha la sua brava lista delle cose che deve fare. Per il suo capo, questa operazione è molto facile, basta consegnare un cosiddetto mansionario. Molto più complesso è invece spiegare a questa persona cosa deve ottenere e perché è importante che lo ottenga (quali riflessi ci sono per l’azienda in termini di reputazione, di soddisfazione dei clienti, di sicurezza ecc.). Ma se una persona non capisce cosa deve ottenere attraverso il suo lavoro e gli si dice solo cosa deve fare, la sua azione sarà senza intelligenza, senza creatività, senza iniziativa, senza carattere, senza responsabilità, in una parola senza anima.
 
Il Paese (sotto traccia, ancora molto sotto traccia) sta disperatamente cercando una svolta non solo di tipo economico ma soprattutto di tipo morale e comportamentale. I manager (pubblici o privati che siano) si trovano in una posizione unica e privilegiata per contribuire a questo sforzo, potendo influire sui comportamenti di tante persone. Nessun cambiamento è possibile se ciascuno, nel suo posto di combattimento, non fa quello che è necessario per la salvezza comune. Sempre ammesso (e non concesso) che la salvezza comune sia un obbiettivo desiderabile.
 
                                                                                                    Pepe Caglini
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