L’UOMO SI ESTINGUERA’ PER TROPPA INTELLIGENZA (ARTIFICIALE)
Lunedi - Gennaio 2, 2012
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L’UOMO SI ESTINGUERA’ PER TROPPA INTELLIGENZA (ARTIFICIALE)
C’è stato un periodo, nella mia vita, in cui ho navigato molto, non in Internet ma in Pacifico e altri
oceani – non è difficile, sono collegati – a bordo di un indistruttibile cutter in acciaio costruito con le nostre mani da me e mia moglie. Ragazzi, credetemi, c’è di peggio nella vita, posso assicurarvelo (cfr. A bordo di un sogno, Edizioni Gribaudo, 2010).
Siamo nei primi anni '80 del secolo scorso e il GPS non l’ha inventato ancora nessuno. Si navigava grosso modo come ai tempi di Colombo, sestante per osservare gli astri, log, bussola e carte, tante carte. Avere una posizione certa era una chimera e qualche volta – con tempo cattivo – nessuna posizione per giorni e giorni. Un problema? Neanche per sogno, tutti i marinai, anche su una portaerei, lavoravano così. Ma il nostro cervello, il cervello dei marinai, era diverso da quello che ci ritroviamo oggi e vedremo il perché.
Durante la traversata dell’immenso Pacifico ero diventato così sensibile che percepivo minime variazioni di latitudine, notte dopo notte, semplicemente traguardando la Croce del Sud – corrispettivo della nostra stella Polare nei mari a sud dell’equatore – con le crocette dell’albero. Avrei potuto effettuare, se lo avessi voluto, anche senza sestante, un atterraggio per latitudine in una qualsiasi isola sufficientemente chiara da pericoli esterni, come per esempio le Marchesi, o l’isola di Pasqua.
Quando uscirono i primi GPS ne installai immediatamente uno a bordo. Mi sembrava una cosa meravigliosa, avere una posizione certa senza alcuna fatica, invece del continuo lavorio mentale di calcoli e osservazioni che occupava praticamente quasi tutto il tempo della navigazione. Ero finalmente libe.. Il primo colpo su uno scoglio sommerso, anche se quasi mi spezzò un femore essendo caduto malamente su un verricello, fu solo un gentile avvertimento.
Da un pezzo, quando traversavamo un arcipelago oppure un’area insidiosa, avevo smesso di usare il metodo caro ai montanari del tre in presa e uno si muove consistente nel non procedere verso ciò che non si conosce se tre dati non coincidono tra di loro. Perché fare tutti questi ragionamenti? Non c’è il GPS a pensarci? E così, anno dopo anno, senza che me ne accorgessi, la mia mente aveva perso quella prontezza animalesca che mi consentiva di “sapere” la posizione senza guardare gli strumenti, di svegliarmi se l’ancora arava di notte senza che suonasse alcun allarme o di “sentire” la minacciosa presenza di una nave in transito nella foschia più totale.
Eppure fu necessario un ben più duro avviso, un incaglio quasi disastroso a poche miglia dalle coste albanesi, per convincermi definitivamente ad abbandonare il GPS e a tornare all’esame diligente delle carte e all’uso della mente con i suoi calcoletti – distanze, tempi, velocità, rilevamenti, profondità, ecc. – e ragionamenti analogici collegati. Ora posso dire, in mare, di essere tornato in sicurezza, come ai tempi del sestante. Il GPS è lì, pronto ad essere consultato, se serve. Ma per navigare uso di nuovo la testa e così posso parlare a ragion veduta di ciò che produce nell’uomo un impiego sconsiderato dell’intelligenza artificiale.
L’ennesima rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo riverserà tra breve sul mercato una nuova generazione di sensori e algoritmi di una potenza e versatilità mai vista prima, tale da insinuarsi nei più minuti aspetti della nostra vita, così che a quanto pare l’uomo sarà sempre più esentato non solo dal fare – e questo potrebbe anche andar bene – ma anche dal pensare, e questo non va bene per niente.
Se infatti oggi noi siamo quello che siamo, ciò è dovuto anche al lavoro che il nostro cervello ha dovuto fare per cercare di farci sopravvivere in un ambiente ostile. Il pensiero è la massima espressione di questa preziosa attività. Toglietegli questo lavoro, che per qualcuno è evidentemente una fatica e il cervello regredirà – come era regredito il mio quando usavo il GPS – e lo farà tanto più e tanto più velocemente quanto più invasiva sarà l’avanzata dell’intelligenza artificiale. Ma la cosa più surreale è l’entusiasmo con il quale la gente, usando male l’innovazione, si mette nel sacco con le sue stesse mani, senza nemmeno l’ombra di un dubbio su ciò che guadagna e quello che invece perde senza accorgersene.
Pensate ad un manager, a quanto può essere per lui allettante e sembrare efficiente l’avere tutte le informazioni sul tablet e poter comunicare in videoconferenza con chiunque nel mondo senza spostarsi di un metro. Vorrei ricordare a questi manager che quella che hanno di fronte non è una realtà aumentata ma una realtà diminuita e che se continuano su questa strada – conoscere senza pensare – alla fine il rischio è quello di sapere apparentemente tutto ma di perdere, paradossalmente, l’informazione che conta davvero.
Per avere questa informazione che consente di padroneggiare realmente le situazioni, l’intelligenza artificiale serve a poco: è necessario recarsi sul posto, osservare cosa succede per il tempo necessario e con sufficiente concentrazione, parlare con le persone in profondità, ascoltare, toccare le cose, respirare le atmosfere, percepire l’aria che tira, trasmettere qualcosa di significativo agli altri. Teniamo il nostro cervello deprivato di questo lavorio per qualche anno e alla fine ci ritroveremo solo con un tablet.
Pepe Caglini